Eventi

Dal 17 Febbraio 2018 al 8 Aprile 2018

Palazzo Mediceo Seravezza

"La vita e nient'altro" di Uliano Lucas

Cinquant'anni di viaggi e racconti di un fotoreporter freelance. A cura di Tatiana Agliani

Dal 17 febbraio al 8 aprile 2018 Seravezza Fotografia nella sua quindicesima edizione dedica la mostra principale al fotografo freelance Uliano Lucas nelle sale di Palazzo Mediceo, Patrimonio Mondiale Unesco .
La mostra di Uliano Lucas, intitolata: "La vita e nient'altro” - Cinquant'anni di viaggi e racconti di un fotoreporter freelance - è una mostra antologica con più di 200 fotografie in bianco e nero, una mostra fotografica che spazia dalla realtà milanese del mondo dell'arte degli anni '60 che gravitava attorno al bar Giamaica e al bar Genis alla contestazione operaia e studentesca degli anni '70, dall'immigrazione in Italia e all' estero sempre di quegli anni e anche nel contemporaneo con un reportage all'interno del Centro d'accoglienza “T. Fenoglio” a Torino. E ancora, dalle guerre di liberazione in Angola, Eritrea, Guinea Bissau reportage che documentano la fine del colonialismo portoghese, fino agli scatti fotografici che documentano la realtà del Medio Oriente, la dissoluzione dell’ex-Jugoslavia, la vita degli emigranti in Europa, gli anni del terrorismo, il mondo del lavoro e le sue trasformazioni.Una mostra che vuole nuovamente attirare l'attenzione sugli argomenti trattati,spesso ancora attuali e che vuole dare il giusto riconoscimento all'autore per il lavoro svolto fino ad oggi.

Così Uliano Lucas ci racconta la sua mostra:
"Le fotografie di questa mostra provengono per la maggior parte da reportage giornalistici che ho realizzato nel corso degli anni come fotoreporter indipendente. Sono fotografie di cronaca, immagini scattate un po’ ovunque, nelle strade di città grandi e piccole, nelle abitazioni, all'interno di luoghi di lavoro o di asilo, ritratti di momenti di aggregazione sociale e politica, memoria di persone, situazioni, esperienze che mi hanno coinvolto professionalmente e umanamente.
Sono fotografie d’archivio che abbracciano gli ultimi cinquant’anni e richiamano diversi aspetti e momenti del mio percorso professionale: dai reportage in Europa a quelli sull'Africa, frutto di ripetuti viaggi in Marocco, Tunisia, Mozambico, Etiopia, Eritrea, dalla tragedia dell’assedio di Sarajevo, all’attenzione mai sopita verso il mondo del volontariato, dalle indagini nelle trasformazioni delle realtà del lavoro alla scoperta della contraddittoria Cina del nuovo millennio.
Racconti diversi che hanno però il comune denominatore di voler dare voce a realtà marginali: le comunità degli immigrati in Italia e in Europa, la vita delle periferie urbane, le reti della solidarietà, il dramma dell’abbandono degli anziani e la complessità del problema giovanile, le cooperative per il reinserimento dei disabili, la questione psichiatrica, osservata nel suo evolversi, dalla chiusura dei manicomi alle esperienze di assistenza dei centri di salute mentale.
Duecento i mmagini rolex replica IT che sono dunque altrettante microstorie, appunti di viaggio, riflessioni che spero si offrano oggi come uno strumento per capire le trasformazioni che, nel costume, nel lavoro, nella quotidianità, ha subito e sta subendo il mondo intorno a noi, ma che, soprattutto, vogliono aiutare a ricordare e comprendere altre voci ed altri luoghi, fuori e dentro noi stessi." (Uliano Lucas)

Questa mostra ripercorre la storia, i viaggi, gli incontri, di un fotoreporter freelance che da ormai cinquant'anni cerca di raccontare con consapevolezza, ostinazione, intelligenza la società in cui vive.
Nato a Milano nel 1942, Uliano Lucas cresce nel clima di ricostruzione civile e intellettuale che anima il capoluogo lombardo nel dopoguerra. Ancora diciassettenne, inizia a frequentare l’ambiente di artisti, fotografi e giornalisti che vivevano allora nel quartiere di Brera e decide di intraprendere la strada del fotogiornalismo. 

 I primi anni lo vedono fotografare le atmosfere della sua città, la vita e i volti degli scrittori e pittori suoi amici - Enrico Castellani e Costantino Guenzi, Piero Manzoni e Arturo Vermi - ma anche raccontare i nuovi fermenti nella musica e nello spettacolo. Poi arriva il coinvolgimento nelle riflessioni politiche scaturite dal movimento antiautoritario del '68 e l’impegno in una lunga campagna di documentazione sulle realtà e le contraddizioni del proprio tempo: l’immigrazione in Italia e all’estero, la distruzione del territorio legata all’industrializzazione, le proteste di piazza degli anni ’68-’75, il movimento dei capitani in Portogallo e le guerre di liberazione in Angola, Eritrea, Guinea Bissau. Uomo colto e visionario, Lucas lavora in quel giornalismo fatto di comuni passioni, forti amicizie e grandi slanci che negli anni Sessanta e Settanta tenta di opporre una stampa d’inchiesta civile all’informazione consueta del tempo, poco attenta ad una valorizzazione della fotografia e imperniata sulle notizie di cronaca rosa e attualità politica. Collabora negli anni con testate come Il Mondo di Mario Pannunzio e poi di Arrigo Benedetti, Tempo, L’Espresso, L’Europeo, Vie nuove, La Stampa, il manifesto, Il Giorno, o ancora con Tempi moderni di Fabrizio Onofri, Abitare di Piera Pieroni, Se – Scienza e Esperienza di Giovanni Cesareo e con tanti giornali del sindacato e della sinistra extraparlamentare. A servizi su argomenti d’attualità e sul mondo dell’arte e della cultura, alterna reportage, che spesso sfociano in libri, su temi che segue lungo i decenni: dalle trasformazioni del mondo del lavoro, alla questione psichiatrica. Racconta le nuove forme d’impegno del volontariato degli anni Ottanta e Novanta, le iniziative del Ciai (Centro italiano per l’adozione internazionale) in India e in Corea e le realtà della cooperazione in Africa. Durante la guerra jugoslava vive e restituisce in immagini le tragiche condizioni di esistenza della popolazione sotto assedio. 

Nel corso degli anni Novanta i cambiamenti nel sistema dell’informazione e della produzione e distribuzione della notizia lo portano a diradare le corrispondenze giornalistiche per dedicarsi a lunghe inchieste proposte in libri e mostre. In esse Lucas rinnova, con uno stile che riflette i cambiamenti del tempo, l’impegno di conoscenza e analisi e la capacità narrativa ed evocativa che lo hanno da sempre contraddistinto. Documenta il cambiamento epocale che si sta compiendo a cavallo del nuovo millennio: le trasformazioni nel mondo del lavoro in una società ormai postindustriale, le realtà dell'emigrazione tra accoglienza, integrazione ed emarginazione, il mondo giovanile con la sua cultura e la sua irrequietezza in un quadro socio-politico segnato dall'incertezza e dalla fine delle ideologie.
La sua è una fotografia che non si ferma mai alla stretta attualità e cerca di offrire chiavi di lettura per comprendere il proprio tempo, e che ha sempre saputo coniugare l’analisi del quadro storico generale col “particolare” della vita e del mondo interiore delle persone ritratte.

 

Gli esordi: via Brera e dintorni

Il pittore Angelo Verga al bar Giamaica, Milano, 1966 c.

 

“Milano, le strade, le persone, la quotidianità della vita, le trasformazioni del costume, della morale, della famiglia, l’irrompere della musica nel mondo giovanile, gli incontri, la vita nei caffè, le immense periferie urbane e le loro trasformazioni. Ecco le mie prime fotografie, vivendo nel frattempo la vita di tutti i giorni, con gli amici: artisti, musicisti, flâneur, affascinanti narratori di storie davanti a un bicchiere di vino. Ho usato la macchina fotografica per indagare e capire le sfaccettate realtà che mi circondavano e che mi incuriosivano.” (Uliano Lucas)

Uliano Lucas nasce a Milano nel 1942 da una famiglia operaia e cresce nel clima di ricostruzione civile e intellettuale che anima il capoluogo lombardo nel dopoguerra. La sua è una formazione irregolare, studia ai Convitti della Rinascita, costituiti nel dopoguerra per iniziativa di Luciano Raimondi e Guido Petter per offrire la possibilità di un’istruzione e di un sostegno ai figli dei partigiani e dei reduci con problemi familiari, ma ne viene espulso per indisciplina. È soprattutto un formidabile autodidatta, lettore onnivoro e appassionato di cinema che a sedici anni trova “la sua università” nel bar Jamaica, nel quartiere di Brera, luogo di incontro di artisti, intellettuali, giornalisti, grafici e artigiani della vecchia Milano, protagonisti di una stagione culturale di grande vivacità. Qui frequenta artisti come Piero Manzoni, Enrico Castellani, Andrea Cascella e fotografi come Mario Dondero e Ugo Mulas e qui decide di intraprendere la strada del fotogiornalismo. Le sue prime fotografie raccontano la sua città, agli albori della radicale trasformazione del boom economico, la vita e i volti degli scrittori e pittori suoi amici, ma anche i nuovi fermenti nella musica e nello spettacolo, dal Cab ‘64 di Tinin Mantegazza ai gruppi rock degli Stormy Six e dei Ribelli. Mentre il servizio militare, nel 1967, durante il quale realizza fotografie sospese tra la leggerezza del ricordo personale e la consapevolezza documentaria del professionista, è la prima occasione per svelare l’assurdità e le contraddizioni di un’istituzione totale.

Cinque anni a Milano

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“L’immagine nuova, diversa irrompe dagli strappi della storia, quando c’è conflitto. Quando si mette in discussione un regime, il primo a cambiare è il modo di vedere.” (Tano D’Amico)

Il movimento antiautoritario che scuote l’Italia nel 1968 è un momento di rottura e di svolta non solo nella storia politica e sociale italiana ma anche nella fotografia. Fotografi di diverse generazioni si sentono chiamati a documentare le proteste e le loro istanze, a denunciare le ingiustizie di una società ancora per molti versi chiusa e classista, elaborando nuovi modi di racconto, con uno stile più moderno e incalzante. Lucas a Milano segue giorno dopo giorno gli scioperi operai e le manifestazioni studentesche, le lotte per la casa, le battaglie femministe, interpretando le rivendicazioni dei movimenti e dando un volto e una voce a nuove categorie sociali che chiedono diritto di rappresentanza nella società e nell’informazione. Nello stesso tempo cerca di capire e raccontare una società in profonda trasformazione, le realtà del mondo del lavoro, i cambiamenti del territorio, l’emigrazione. È l’inizio della definizione di un metodo di analisi della realtà e di un impegno di testimonianza che ha il suo paradigma nel libro Cinque anni a Milano e che segnerà tutta la sua vita.


Afrique-Asie

In un comando del Fronte popolare di liberazione dell'Eritrea, 1974

 

“Andai in Guinea Bissau con il giornalista Bruno Crimi. Si combatteva una lontana guerra di liberazione anticolonialista. La girai in lungo e in largo, con i partigiani e i soldati dell’esercito di Amilcare Cabral. Una notte durante una marcia, i soldati iniziarono a cantare, in francese, la canzone dei maquisard, quella di Yves Montand. Una forte emozione, sentivo in questa guerra di liberazione una continuità con la nostra resistenza antifascista.” (Uliano Lucas)

Lucas è profondamente coinvolto nel dibattito terzomondista che attraversa fra gli anni Sessanta e i Settanta il mondo della sinistra europea, nell’utopia di una “terza via” rispetto ai due blocchi contrapposti Usa-Urss. Agli inizi degli anni Settanta viaggia nel Portogallo di Caetano e nella Spagna franchista, cercando di cogliere i segni di crisi di questi regimi, e nel 1974 è a Lisbona, a raccontare il colpo di Stato del movimento dei capitani che determina il crollo della dittatura. Negli stessi anni intraprende lunghi viaggi in Angola, Eritrea, Guinea Bissau, insieme ai giornalisti Bruno Crimi e Edgardo Pellegrini, e realizza reportage sulle guerre di liberazione di questi paesi che vogliono restituire l’impegno, la consapevolezza e l’entusiasmo di un’intera popolazione che cerca di costruire un proprio stato indipendente, lottando con le armi, ma anche costituendo scuole e ospedali, dandosi una propria organizzazione politica e sociale. Questi racconti vengono pubblicati su riviste come Tempo, Vie nuove, Jeune Afrique e Koncret e sugli stessi bollettini d’informazione dei movimenti africani. E danno vita a due libri che saranno un punto di riferimento per la riflessione terzomondista di quegli anni: Guinea Bissau. Una rivoluzione africana e La Primavera di Lisbona. Lucas viaggerà poi lungamente nel continente africano, in Tanzania, Congo, Mozambico, Etiopia, seguendo prima il processo di decolonizzazione e poi i problemi, le realtà e le trasformazioni di questi paesi nel corso dei decenni. 

 

Migrazioni. Il lungo viaggio

Giovane tunisino ingaggiato su un peschereccio, Mazara del Vallo (Trapani), novembre 1971

“Li ho visti arrivare nel 1969, in Sicilia, a Mazzara del Vallo. Erano i primi lavoratori tunisini, imbarcati sui pescherecci. Spiegavo loro che ero lì per un settimanale, desideravo fotografarli, mi guardavano stupiti. Stanchi, rassegnati. Non potevano dirmi di no. Di fianco, mi accompagnava, sospettoso, l’armatore. Trent’anni dopo, due donne sorridenti fuori dalla loro casa si mettono in posa negli abiti domenicali. Sono andate dal parrucchiere. Sanno che appariranno in un libro sulle donne del comprensorio della ceramica. Il ritratto è accettato, una libera scelta. Mi dicono che ne vogliono più copie, per mandarle ai loro parenti nel Ghana.” (Uliano Lucas)

Dai primi nordafricani arrivati agli inizi degli anni Settanta in Sicilia e ingaggiati nell’attività della pesca o nella raccolta delle olive agli emigranti delle zone depresse d’Italia che prestavano la loro manodopera nei centri industriali di Milano e Torino e nelle fabbriche della Germania e della Svizzera; dai lavoratori delle miniere belghe ai primi immigrati in Italia dall’Africa subsahariana impiegati nell’edilizia alla fine degli anni Ottanta, fino ai nuovi nuclei familiari di un flusso migratorio imponente e vario faticosamente avviati ad un pieno inserimento nel paese d’adozione. Nel corso degli anni Lucas ha seguito diversi processi migratori, indagandone le origini storiche e sociali ma anche ravvisando in essi analoghe realtà di fatica, sfruttamento e coraggio perché, ricorda, “chi emigra, per dare un futuro ai propri figli, è il meglio di un paese che se ne va”. Quello che ha offerto è uno sguardo composito, fuori dalla retorica, che ha cercato di restituire la complessità del fenomeno: le diversità culturali, i luoghi e i modi dell’aggregazione fra cittadini provenienti dallo stesso paese, il mondo del lavoro e le battaglie per i diritti, il rapporto con il luogo d’origine, il quadro sociale ed economico e le storie individuali, in un racconto che libera il migrante dai luoghi comuni in cui è molto spesso imprigionato. 


Altri sguardi

Casa alloggio "L'Aquilone" cogestita dal Centro di salute mentale e dalla cooperativa sociale Europa, Lucera (Foggia), 1997

 

“È più semplice fissare con l’obiettivo il volto statico della degradazione, della morte, che cogliere un attimo di vita o di speranza di vita che rinasce da quella sofferenza.”  (Franca Ongaro Basaglia)

Morire di classe di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, Gli esclusi di Luciano D’Alessandro, Tu interni... io libero di Gian Butturini... La denuncia della violenza dell’istituzione manicomiale è un tema centrale nella fotografia concerned degli anni Sessanta-Settanta, che con servizi giornalistici e libri rompe il cliché della rappresentazione caricaturale e brutale del “matto” delle foto di cronaca degli anni Cinquanta, per mostrare l’umanità violata di uomini e donne internati nei manicomi. Nelle fotografe di Lucas questa testimonianza è presente nel reportage del 1978 sull’ospedale psichiatrico di Cernusco sul Naviglio. Ma le sue immagini raccontano poi anche il “dopo”, le conseguenze dell’applicazione della legge Basaglia che proprio nel 1978 apre i manicomi e propone nuovi modelli di cura, in un radicale ribaltamento della concezione del disagio psichico. Da simbolo di una sistema “che sorveglia e punisce”, come lo sintetizza Foucault, la questione psichiatrica diventa dunque paradigma di una società inclusiva che non segrega i deboli, comprende le origini spesso sociali del disagio e vive la diversità anche come ricchezza. Da oltre trent’anni, a Trieste, Parma, in Puglia, a Genova, a Lecco come a Grosseto, Lucas racconta questa lenta conquista di una libertà e “normalità” di vita da parte degli utenti dei centri di salute mentale, le difficoltà, le forme dell’assistenza, le sofferenze, ma anche, spesso e soprattutto, la gioiosa affermazione della propria personalità. Con una convinzione che sottende tutte le fotografie: non c’è un confine fra salute e malattia, non c’è un diverso da mostrare, ma quella che può essere raccontata e scoperta è semplicemente la complessità dell’uomo.

Le forme del lavoro

“Il lavoro è: speranza, occupazione, benessere, consumo, egoismo.
Il lavoro è: fatica, umiliazione, disoccupazione, nero, minorile, miseria, disagio.
Il lavoro è: dignità, cultura, tolleranza, partecipazione, confronto, solidarietà, lotta, legalità.
Il lavoro è la vita di ogni giorno.” (Roberto Carminati, operaio metalmeccanico)

Nella composita documentazione sulla società italiana che Uliano Lucas ha costruito nel corso degli anni, il mondo del lavoro è stato uno degli ambiti privilegiati di attenzione. In queste fotografie troviamo cinquant’anni di storia del lavoro italiano: la centralità della fabbrica degli anni Sessanta, i distretti produttivi e l’economia della piccola impresa a conduzione familiare diffusa sul territorio, il problema del rapporto tra fabbrica e ambiente, della difesa della salute dei lavoratori e poi il passaggio alla realtà postindustriale degli anni Ottanta, con il “Lavoro” che si frantuma in una pluralità di “lavori”, l’espansione del terziario e la new economy della comunicazione degli anni Novanta, le piccole imprese a tecnologia avanzata, il difficile momento che stiamo attraversando, con la crisi dei modelli produttivi del passato e l’incapacità di delinearne di nuovi. E, accanto a questo, le diverse situazioni regionali, le svariate realtà professionali che si scoprono attraversando l’Italia, in un’economia costantemente sospesa tra vecchio e nuovo. È un racconto non toccato da pregiudiziali ideologiche, che riconosce e mostra il lavoro come impegno, come diritto, come forma di realizzazione e socializzazione, oltre che come fatica e sfruttamento, ma soprattutto è una testimonianza che si è costruita nel tempo, in un fitto dialogo con il mondo del sindacato, con sociologi ed economisti, come un fondamentale “saggio visivo” per riflettere sulle politiche del lavoro e sulle scelte di sviluppo della nostra società.


La storia, le storie

“Ma perché? La politica è forse solo fredda teoria, adesione alle soluzioni più o meno scientifiche di questo o quel movimento? O è anche una scelta di vita? E io scelgo di fotografare, e faccio politica. Per questo scelgo un certo tipo di temi.” (Uliano Lucas)

In un sistema dell’informazione poco attento alla valorizzazione della fotografia e imperniato sulle notizie di attualità politica e cronaca, Lucas riesce a proporre e pubblicare i propri reportage lavorando con quelle testate progressiste o dei “movimenti” che cercano di opporre una stampa d’inchiesta civile all’informazione consueta del tempo, spesso legata al potere politico ed economico del paese. Trova preziosi interlocutori in direttori e caporedattori come Nicola Cattedra, Gianluigi Melega, Pasquale Prunas, Giovanni Valentini, Tino Azzini o ancora Nini Briglia, Giovanni Raboni e Anna Masucci, e in giornalisti, grafici e fotografi impegnati come lui in una intensa indagine sui problemi e le contraddizioni del proprio tempo. Con loro idea reportage, mostre, progetti editoriali, come il bimestrale della Fim di Milano Azimut, diretto da Piergiorgio Tiboni, il periodico L’illustrazione italiana o la collana della Idea Editions Il fatto, la foto.
Collabora dunque negli anni con testate come Il Mondo, Tempo, L’Espresso, L’Europeo, Vie nuove, Giorni-Vie nuove, Rinascita, La Stampa, il manifesto, Il Giorno, o ancora con Tempi moderni di Fabrizio Onofri, Abitare di Piera Pieroni, Se – Scienza e Esperienza di Giovanni Cesareo e con tanti giornali del sindacato e della sinistra extraparlamentare. Lavora anche con Grazia Neri e, attraverso questa agenzia, con L’Express, Le Nouvel Observateur, The Times, The Independent.
Per questi giornali segue negli anni con attenzione la questione medio-orientale, torna ripetutamente in Africa, viaggia in Europa, e intanto documenta le trasformazioni che si vanno compiendo nella società italiana, al Nord come al Sud, nel mondo cattolico o in quello giovanile, nella politica e nella mentalità collettiva. Racconta il problema ambientale, il dramma dell’eroina, mostrando un’attenzione costante verso i temi dell’assistenza, della tutela dei diritti e verso quelle esperienze che riescono a garantirli. E poi, via via, racconta le nuove forme d’impegno del volontariato degli anni Ottanta e Novanta, come nel lungo viaggio in India per il Centro italiano per l’adozione internazionale con il giornalista Enrico Forni.
 

La città infinita

Quartiere Sant'Ambrogio, Milano, 1973

“Così fotografare volti scavati e bambini abbandonati fra i rifiuti, come nella migliore delle tradizioni delle foto dei reporter finto-meridionalisti o finto-terzomondisti, non serve: qui si deve capire e intendere ben altro. Il fotografo deve poter mostrare i conflitti dentro un territorio, deve poter mostrare l’incapacità di gestire uno spazio e provare la rovina di questo spazio… Questi sono stati i problemi di Lucas: non mostrare storie costruite secondo il vecchio modo di racconto e far vedere invece lo spazio, i rapporti, la dimensione delle contraddizioni e delle difficoltà in una striscia di terra dove tutto si sovrappone e si intreccia... Così finisce anche per Lucas il tempo dei documenti sui rivoluzionari e sulle rivoluzioni e inizia un’epoca di meditazioni, di analisi diverse sulla realtà, un’epoca che vede il fotografo scoprire modi diversi di ripresa e di stampa.” (Arturo Carlo Quintavalle)

La documentazione degli spazi urbani è stata una componente fondamentale dell’indagine di Uliano Lucas sulla società fin dagli anni Sessanta, quando, con il teleobiettivo, evidenziava le geometrie alienanti e asfittiche dei casermoni e dei viali delle nuove periferie, luogo di approdo degli emigranti fotografati alla stazione Centrale, dormitorio per i lavoratori ripresi durante gli scioperi o in fabbrica. Dagli anni Ottanta però questo sguardo si approfondisce, il paesaggio urbano diviene una chiave di lettura sempre più importante per comprendere gli indirizzi culturali del proprio tempo. Non si tratta però né di fare proprie le scelte stilistiche di una nuova fotografia del territorio che si va affermando in questi anni, né di far emergere le “strutture portanti” di una società, come si proponeva Ugo Mulas, quanto piuttosto di mostrare il caos urbanistico, l’affastellarsi disordinato di segni, l’intreccio di strade e architetture in cui scorre la vita della gente, lo stretto nesso fra spazi e vita. È una modalità di racconto che trova la sua piena applicazione nel lungo reportage sul Ponente genovese del 1988 e poi non viene più abbandonata. La ritroviamo ad esempio nelle inchieste sulla “Grande Milano” delle pagine cittadine di la Repubblica, condotte con Guido Vergani e Paolo Mereghetti nei primi anni Novanta, nel reportage del 1996 su Taranto, in quello sempre dei primi anni Novanta su Modena e nell’inchiesta sul Quartiere Libertà di Bari del 2007.


In Jugoslavia

“Si è consumata a Sarajevo e nella Bosnia non una guerra, ma un genocidio, un massacro da fino all’ultimo respiro. Perché è la domanda? Cosa è successo? E fino a che punto si può assistere come spettatori a questa carneficina senza fine? Ho vissuto e visto come fotoreporter un’esplosione di follia collettiva, sapientemente alimentata, anche attraverso i mezzi di comunicazione, dalla vecchia burocrazia al potere per i suoi interessi economici, il suo desiderio di sopravvivenza; un grande dramma, a Sarajevo, a Mostar, a Belgrado, con le sue vittime e i suoi carnefici. Ho visto l’inefficienza dell’Onu e di altri organismi umanitari, la superficialità e la voglia di protagonismo di tanti politici e intellettuali europei.
Che fare per la Bosnia? Raccontare, spiegare, informare nel modo più corretto possibile, senza autocensure né paure. Con consapevolezza. Raccontare la complessità della sopravvivenza, la tragedia della quotidianità. Raccontare Sarajevo, città amata dai poeti, luogo di incontro per secoli di varie nazionalità, città laica e tollerante, oggi ferita e martoriata, umiliata e abbandonata.” (Uliano Lucas, 1994)

Fra il 1992 e il 1993 Lucas viaggia più volte nella Jugoslavia dilaniata dal conflitto etnico, insieme allo scrittore Piero Del Giudice. È a Mostar, Stolac, Kiseljak e vive un mese e mezzo a Sarajevo durante l’assedio, ospite del giornalista Zlatko Dizdareviç. È consapevole che in questa guerra giungono al culmine tutte le contraddizioni del sistema dell’informazione degli ultimi due decenni, l’ambiguità di una “società delle immagini” che porta nelle case, da tutto il mondo, il “dolore degli altri” in un flusso di notizie che si succedono in tempo reale senza mai offrire spazio per la riflessione e l’analisi. E sa quanto i mezzi di comunicazione siano ormai anche parte in gioco nello scontro militare, usati quasi come un’arma dai belligeranti per intimidire, depistare, consolidare il consenso. Cerca allora, ancora una volta, di proporre un’altra rappresentazione e racconta la quotidianità della popolazione: le donne che, a Sarajevo, non rinunciano a truccarsi prima di uscire per andare al lavoro, sotto il tiro dei cecchini, il gioco dei bambini, la socialità usata come antidoto alla paura e alla violenza. Realizza così un racconto che stenta all’epoca ad essere pubblicato, ma che si offre a distanza di anni come una delle testimonianze più vere delle realtà di vita di un paese in guerra.


Punti di vista sul nuovo millennio

“Ha ancora senso, oggi, scattare delle fotografie con una 35mm, usando le tradizionali pellicole, in un mondo dell’immagine e dell’informazione in rapida e continua trasformazione, dominato dalla fotografia digitale e dalla comunicazione via web che hanno modificato il nostro rapporto con la notizia, l’avvenimento, il fatto, la conoscenza? Ha ancora senso produrre inchieste vecchio stile quando la comunicazione visiva sta diventando omologata a livello planetario, merce da vendere e da consumare, notizia da imporre? In quali nuovi spazi può operare il fotoreporter per continuare a documentare il reale intorno a noi? Continuo a credere nel reportage come racconto colto, per spiegare, dare emozioni e far ragionare. La foto come memoria del nostro vivere.” (Uliano Lucas)

Negli anni Novanta i cambiamenti nel sistema dell’informazione e la chiusura della maggior parte dei giornali con cui collabora, portano Uliano Lucas a diradare le corrispondenze giornalistiche per dedicarsi a inchieste di ampio respiro condotte insieme a giornalisti, sociologici e storici. In esse Lucas interpreta il cambiamento epocale che si sta compiendo a cavallo del nuovo millennio, il salto epistemologico determinato dall’introduzione delle nuove tecnologie, attraverso una ricerca estetica influenzata dalle tendenze del linguaggio visivo degli ultimi anni. Fra il 1998 e il 2002 viaggia in Cina, raccontando il fermento di una paese che scopre un nuovo benessere e una nuova libertà, in quel momento di rapido e vorticoso passaggio che trasformerà questa nazione da paese “in via di sviluppo” in superpotenza. E poi continua a raccontare i diversi volti del proprio tempo. Da un’intensa collaborazione dei primi anni 2000 con la rivista Io e il mio bambino ha origine un racconto ancora in gran parte inedito sulla nascita e la maternità. L’invito del regista Giovanni Columbu lo porta, fra il 2009 e il 2011, sul set del film Su Re, di cui diventerà anche direttore della seconda équipe di ripresa.  Del 2006 è il reportage sulle carceri di San Vittore e Bollate, realizzato per la Triennale di Milano con Franco Origoni e Aldo Bonomi; del 2008 il libro Scritto sull’acqua, in cui le sue immagini sulle popolazioni borana dell’Etiopia meridionale dialogano con il racconto letterario di Annalisa Vandelli. Nel 2017 con il libro Il tempo dei lavori, Lucas indaga nuovamente le realtà del mondo del lavoro a Genova a vent'anni dall'inchiesta Lavoro/lavori a Genova. Temi seguiti lungo i decenni tornano così in queste indagini degli ultimi anni ponendo interrogativi, offrendo occasioni di analisi e di riflessione sui percorsi di oltre cinquant'anni di storia e sulle scelte di sviluppo, politiche e culturali, che hanno segnato la contemporaneità. 

ORARI: dal venerdì al sabato 15.00-20.00 | domenica e festivi: 10.00-20.00 | Palazzo Mediceo

biglietto: 7 euro - ridotti 5 euro

 

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